statistiche web
Skip to main content

Aprire porte, aprire cuori

Miei adoratissimi lettori,

sto lasciando che questo autunno, con i suoi profumi di legna e melograni, mi inviti ai suoi doni. Lo seguo in silenzio, senza nulla proferire.

Sto sperimentando l’ascolto, la passività, e quel raro lusso di permettere alla vita di invitarmi a fare — o a non fare — come meglio crede.

Nel frattempo, chiudo fuori dalla porta i chiacchiericci inutili e boriosi che di tanto in tanto giungono alle mie orecchie ancestrali, lasciandoli volentieri a chi ama fare da secondino alle mie prigioni del passato.

Le “guardie”, si sa, sono pur sempre necessarie: ogni castello ne ha bisogno. Grazie a tutte le guardie.

Ma torniamo al filo di questa penna, che oggi vuole dire qualcosa sull’ospitalità.

Nonostante io non sia ancora del tutto autonoma negli spazi e nei movimenti, è stata un’immensa gioia accogliere in questi mesi alcuni dei miei amici più cari — quelli con cui posso mostrarmi in pigiama e spettinata.

Quelli che, all’occorrenza, hanno imparato a stare un passo indietro, come io ho imparato con loro. Gli stessi che mi hanno nutrito, solo con ciò di cui avevo bisogno: empatia e dolce allegria.

La vicinanza, che è la sfera dell’affetto, merita rispetto e discrezione più di ogni altro rapporto.

Nel lavoro, c’è sempre una scrivania, un telefono, un servizio a fare da confine.

Nella vicinanza, invece, bisogna saper rispettare i muri invisibili.

Difficilmente, quando nella vicinanza parole o pensieri superano quel muro, l’allarme della mia magione interiore non scatta.

Ecco spiegato perché alcune persone possono avvicinarsi al centro e altre no.

Molto attenta ai sogni della notte, ogni volta che un gradito ospite ha lasciato il mio “covo blu” — così chiamo lo spazio che sto abitandando temporaneamente, arredato con i colori del mare che mi coccolano in questo tempo di recupero — ho sognato di rifare i letti con amore, preparandoli per accoglierne altri.

E, come sapete, un sogno fatto una sola volta è uno sfogo; ma un sogno che si ripete è un avviso.

L’ospitalità, dunque, sta bussando delicatamente alle porte delle mie aspirazioni.

Sognando di rifare quei letti con amore, accarezzando le lenzuola fresche e benedicendo le stanze del sogno, mi sono ricordata che la mia cara amica Giulia “grande” — per distinguerla da Giulia “piccola”, altro pezzo prezioso del mio cuore — mi diceva spesso:

“A Monia piace rifare i letti.”

E aveva ragione.

A differenza delle mie antenate, che vivevano la casa come esercizio del loro ruolo — anche con una certa ansia — e misura della loro influenza, io — figlia di tempi nuovi — vivo nel pubblico il mio ruolo, mentre in casa regna lo spazio del piacere, del relax e dei toni morbidi.

Non tollero parole di lite, aggressività o mancanze di rispetto. Chi è vicino non può essere nemico in nessuna delle sue più nascoste passioni annientatrici.

Se la competizione e la sfida accadono ripetutamente, il fatto diventa affare di stato: posso chiudere il mio castello interiore e mettere anche i coccodrilli nel fossato.

La vicinanza, per me, è preziosissima, e spero che le nuove generazioni comprendano cosa intendo.

L’epoca del divino femminile è al suo acerbissimo inizio, ma “vicinanza” e “tempo circolare” saranno i nuovi valori dei prossimi trecento anni. Lo abbiamo visto agli albori dell’epoca, nascosto dietro la maschera della pandemia: stare al proprio posto, lo spazio intimo e l’attenzione all’altro.

Ma tornando a quello che questa penna vuole dire oggi: sì, non troverete qui nemmeno un capello della “casalinga disperata”, ma rifare il letto è per me un rituale potentissimo.

La notte, quando si apre quello spazio che appartiene alle ombre e alla possibilità di volare oltre il corpo, il letto diventa la boa tra le onde, il faro nel buio.

Ecco perché rifarlo ogni mattina è, per me, un modo per prendersi cura della dimensione notturna.

In questi mesi, la mia casa — e il mio cuore — si sono trasformati in una piccola locanda dell’anima, accogliendo quei frammenti sparpagliati di me che sono i miei amici.

Hanno attraversato l’Italia per raggiungere la Puglia, portando con sé valigie di storie, risate e briciole di affetto che si sono posate ovunque, come coriandoli di felicità.

E così, tra una tazzina di caffè fumante e una fotografia rubata al mattino durante la colazione, ho riscoperto la dolcezza di mostrare la mia quotidianità, la mia casa, la mia origine.

Lo sguardo di chi entra nel mio mondo dopo anni vissuti altrove è come uno specchio gentile: ti restituisce parti di te che avevi dimenticato di avere.

Vedere questi amici, che hanno resistito agli anni complessi della giovinezza, conoscere i miei genitori e respirare le mura della casa dove sono nata, per me è stato preziosissimo.

Così come lo è stato per me entrare nel punto più morbido della loro vita, quando sono stata io la loro ospite gradita.

Ma ditemi, miei cari, siete mai stati messi alla prova dagli dèi travestiti da ospiti?

Perché sì, nell’antica Grecia l’ospitalità era sacra — sacrosanta, direi! — tanto che Zeus Xenios vigilava sul comportamento degli uomini.

E guai a chi osava essere scortese: gli dèi hanno la memoria lunga e la vendetta rapida.

Vi ricordate di Filemone e Bauci, quei dolcissimi coniugi che accolsero Zeus e Hermes senza sapere chi fossero?

Offrirono loro pane, vino e un sorriso: tre ingredienti che, a quanto pare, valgono più di mille banchetti.

E che dire di Ulisse, finito quasi nel pentolone di Polifemo?

O di Paride, che da ospite divenne ladro di mogli e causa di guerre epiche?

Ah, l’ospitalità… può elevare un’anima al rango degli dèi o scatenare una tragedia da dieci anni di assedio!

E, a proposito di tragedie — lasciatemi un piccolo inciso estivo.

È capitato anche a me di essere “ospite” nella vita di qualcuno: un invito che pareva sincero, una casa aperta, un mondo da scoprire.

Ma, come spesso accade nei miti, sotto la veste dell’accoglienza si celava la trappola del controllo, il teatro del rapporto manipolato.

Non tutti gli ospiti sono viandanti e non tutti i padroni di casa sanno accogliere: alcuni aprono le porte solo per imprigionare o tendere una trappola.

Nell’incontro con il male, ho trovato il mio bene: l’importanza dell’invito a sé, alla propria vita.

Da allora, guardo all’ospitalità con occhi nuovi: non come un semplice invito a entrare, ma come una prova a cui gli dèi ci sottopongono.

Perché aprire la propria casa — e il proprio cuore — è sacro, come ricorda Estea, la dea che questa estate giunse nella mia meditazione (leggi il blog del 29 Agosto: “Tutto è un fiore”).

Quando Estea piangeva nella mia meditazione, non capivo che mi stava avvisando del tradimento che le sarebbe stato inferto. Ora, quando la vado a trovare a occhi chiusi, è sempre felice e luminosa.

E voi, miei adoratissimi lettori, siete più Filemone o Polifemo?

Ospitate o tendete trappole?

Io, nel mio piccolo, preferisco restare sul versante luminoso del mito: quello in cui accogliere qualcuno significa creare un piccolo miracolo domestico, fatto di calore, cura e presenza.

Che ogni porta aperta, allora, sia un atto d’amore.

E che, dietro di essa, si possa sempre sentire il profumo inconfondibile della gentilezza.

La vostra allegra scompigliatrice vi saluta, rimango sempre disponibile per le Costellazioni Familiari e le tecniche di libertà emozionale online. Monia Dell’Aquila.